lunedì 12 novembre 2012

Ognuno di noi dovrebbe darsi questa possibilità.


Non sempre riesce facile descrivere certe sensazioni, mi sforzo di trovare gli aggettivi giusti, ma poi mi rendo conto che per certe emozioni non esistono delle parole specifiche, molte parole andrebbero ancora inventate. Sono sensazioni difficili da spiegare perfino usando parole che conosciamo già. Quando ho deciso di aprire questo blog non avevo la minima idea degli argomenti che avrei trattato, ma mi sono detto: “intanto lo apro, poi vedrò!”
Alle coincidenze ci credo, ma molto poco, e penso che non sia affatto un caso che la scelta del blog vada di pari passo con il cammino di fede che sto percorrendo in questo ultimo periodo. Credo che questo mio percorso di vita spirituale abbia il compito, per volere di qualcuno che ci guida, di essere testimonianza.

Come molti ben sapranno la mia famiglia, soprattutto mia madre, nutre una fortissima fede; non è una di quelle che non perde neppure una Messa della domenica, il suo rapporto con il Signore è come quello che si ha con il più caro degli amici, gli è fedele e si fida. E’ un’amicizia vera la loro, reciproca, ne sono certo.
Una decina di giorni fa mia madre ha espresso il desiderio di andare a Collevalenza, un piccolo borgo medievale - frazione del comune di Todi - divenuto famoso grazie al Santuario dell’Amore Misericordioso, nato da un disegno che Dio avrebbe affidato a Madre Speranza, una religiosa spagnola che negli anni ’50 si trasferì in questi luoghi per realizzare la missione che la Divina Provvidenza le aveva suggerito.
Incuriosito ho così deciso di prenotare un albergo e fare una sorpresa a mia madre per andare a visitare il Santuario e pregare. Non so spiegare da dove mi sia uscita questa iniziativa, quel che so è che mi sono ritrovato con il voucher dell’albergo tra le mani e un desiderio - difficile da descrivere e molto simile ad un richiamo - durato fino al giorno della partenza.
Siamo arrivati a Todi in un sabato pomeriggio qualunque, posato le nostre sacche in albergo, girato la cittadina e mangiato in un’osteria tipica pietanze a base di tartufo. Sapeva di tartufo persino l’aria. Premetto che ero stato a Todi da piccolino ed ho quindi scoperto il suo fascino solamente in questa circostanza.
Questi sono momenti che apprezzo sempre tanto, perché non capita spesso, nella vita di tutti i giorni, di passare con la propria famiglia attimi di serenità così intensi. 



La domenica mattina, dopo una ricca colazione nella veranda dell’albergo, è iniziato il nostro cammino verso Collevalenza. Il santuario si posa su un colle, originariamente il bosco dei cacciatori di quelle zone.
L’imponente costruzione, costituita da una basilica, una cappella, una casa per i pellegrini, delle piscine e un vasto parcheggio, non invade la natura, bensì la rispetta mimetizzandosi con i colori dei colli. Gli edifici sono collegati tra loro mediante pensiline e sottopassi, passaggi utilissimi in una giornata piovosa e ventosa come quella. L’impatto quindi è quello di un’armonia che lega la natura alla spiritualità; fin da subito sono stato travolto da sensazioni di serenità, benessere e pace interiore.
Dopo aver comprato santini e medagliette da regalare, siamo entrati nella basilica per partecipare alla Santa Messa. Sono rimasto stupito non tanto dalla mole di persone, quanto più dalla fascia di età; di questi tempi pensavo fossero pochi i giovani fedeli, mentre in quel luogo eravamo in netta maggioranza. Molti di loro facevano parte del coro disposto alle spalle dell’altare.
Anche la Messa è stata sorprendente. Leggermente prevenuto ero convinto che l’omelia sarebbe stata l’ennesima vuota spiegazione di quelle righe di Vangelo letto, mentre invece il sacerdote è stato molto profondo; sono abituato ad ascoltare omelie molto significative, merito di un francescano che da anni è il padre spirituale della mia famiglia.
Dopo aver ricevuto l’Eucarestia, per la prima volta nella mia vita, ho pianto. Mi sono sentito come chi riceve un dono importante e piange di felicità; mi sono sentito il cuore rinnovato e pieno di amore, un amore mai provato, anch’esso difficile da descrivere. Quando provo certe sensazioni sono contento, ma una parte di me si dispiace per tutti coloro che non hanno la mia stessa fortuna. Ognuno di noi dovrebbe darsi questa possibilità. 
Usciti dalla basilica, sulla sinistra si trova una cappellina con un meraviglioso crocefisso dietro l’altare. Siamo rimasti una decina di minuti a pregare, contemplando quel capolavoro appeso sull’abside. 


Uscendo dalla cappellina c’è la zona delle piscine. Quelle erano terre molto povere di acqua, alcuni centri venivano riforniti dalle autobotti; fu Madre Speranza a dare indicazioni su dove scavare e trivellare, il Signore le aveva indicato il punto esatto. Oggi il pozzo è profondo oltre 120 metri e l’acqua di quelle piscine cura gli infermi e i malati di spirito. Il potere di quest’acqua equivale a quella di Lourdes. All’esterno, sotto la pensilina, c’è una fontana dove molti fedeli riempiono bottiglie su bottiglie da portare ai loro malati. Anche noi abbiamo riempito le nostre.
Io sono convinto che se si prega con fede e fiducia il Signore ci ascolta ed esaudisce le nostre preghiere.
Molti probabilmente sono scettici, ma perché precludersi una possibilità in più?
Se anche tutto questo fosse illusorio, quanto meno ci aiuterebbe a vivere meglio ed in serenità.
Ognuno di noi dovrebbe darsi questa possibilità. 






















mercoledì 24 ottobre 2012

Perché proprio a noi?


Non farò l’elenco delle varie disgrazie o sfortune che mi sono capitate durante il 2012 - e tra queste non ho considerato la crisi economica, le condizioni atmosferiche, la benzina che aumenta e… chi più ne ha più ne metta - ma credo di parlare a nome di molti se affermo che questo non è certamente stato un anno positivo. Io ho iniziato con il conto alla rovescia. 


Quando quel mercoledì 10 ottobre, al primo piano del reparto di oncologia del Policlinico Agostino Gemelli, uscendo dall’ambulatorio n°4, abbiamo saputo che Carlotta avrebbe dovuto affrontare alcuni cicli di chemioterapia, ci è caduto il mondo addosso. 
Aveva da un paio di mesi un bozzo - grande quanto una pesca - sotto la mandibola destra. Inizialmente le era stata diagnosticata una parotite, ma dopo due settimane di antibiotico e cortisone, di un dosaggio basso prima e di uno più potente poi, considerando gli scarsi risultati, abbiamo deciso di approfondire le indagini.
Si trattava di un linfoma, un tumore che si presenta sotto forma di massa, che riguarda il sistema linfatico. Immaginate lo spavento e le lacrime versate in quel momento. Seppur quello fosse già il terzo parere dato da un professionista, ci siamo sempre augurati che si sbagliassero.
Con un piccolo intervento avrebbero prelevato un campione da analizzare e conseguentemente, avuta la conferma dalla biopsia, si sarebbe pianificata la chemioterapia. La chemio è l’unico rimedio contro quel tipo di tumore, seppur benigno.
Fortunatamente, durante l’intervento, il chirurgo, aprendo, non ha più trovato la massa che tanto ci aveva spaventati ed allarmati, ma una semplice infiammazione. Tradotto: una sacca piena di un esudato viscoso, denso e di colore bianco-giallastro, comunemente conosciuto con il nome di pus. Il tutto si è quindi risolto al meglio e l’unica cura sarebbe stata quella di prendere un antibiotico. 

Quando inizialmente l’ipotesi era ancora quella di un brutto male abbiamo passato momenti terribili, devastanti. Perché mai proprio a noi doveva capitare una cosa del genere? E’ questa la domanda che più frequentemente ognuno di noi si pone al cospetto di tragedie che vengono ad infastidire la nostra già non facile vita.
La mia famiglia, da sempre, nutre una fortissima fede in Dio. Anche io sono cresciuto con certi valori e certe idee. Per una serie di ragioni, crescendo, mi sono allontanato da certi sistemi - come quello di andare a Messa la domenica - anche se dentro di me, di tanto in tanto, rivolgevo delle preghiere a chi sapevo mi avrebbe sempre e comunque ascoltato.
La maggior parte delle volte, davanti a situazioni spiacevoli, ce la prendiamo con il Signore perché le cose non vanno come avevamo sperato o addirittura progettato.
E’ una brutta abitudine la nostra, quella di prendercela sempre con qualcun altro.
La verità è che ci siamo fatti, di Dio, un’idea sbagliata e probabilmente sarà colpa di ciò che ci hanno impartito alcuni vecchi insegnamenti che condizionano tutt’oggi il rapporto con il Signore.
Smettiamo di essere ipocriti, ringraziamo mai Dio se qualcosa ci va bene? 
Dio mette a dura prova la nostra fede; nei momenti difficili più fede riusciamo ad avere fidandoci di Lui, più alte sono le probabilità di sconfiggere il male ed essere premiati. E’ infatti l’amore il rimedio per allontanare il male.
Credere in Dio significa amare, perché Dio è amore. Non credere in Dio significherebbe non credere nell’amore.
Se ognuno di noi iniziasse ad amare un po’ di più ci sarebbe meno male. Non dobbiamo fare cose grandi, l’amore è fatto di piccole cose e abbiamo quotidianamente la possibilità di farlo: dare un braccio a chi non può camminare, fare una battuta e far ridere chi è solo, dare un bacio prima di andare a dormire.
“Tutto ciò che di buono farete al prossimo, lo avrete fatto a me!” E’ questo il modo che abbiamo di incontrare Dio, aiutando il prossimo, tra le mura di casa, di un ufficio, in mezzo alla strada o al mercato. Ogni persona che si manifesta a noi è Dio.
Molti di voi, leggendo questo post, non saranno d’accordo, semplicemente perché non credono o non vogliono credere. Molti derideranno le mie parole, altri forse le apprezzeranno.
Ho provato sulla mia pelle cosa significa e Carlotta, uscita dall’ospedale, non ha neppure avuto bisogno di cure antibiotiche. La sua fede è stata messa alla prova, come anche la nostra, ed è stata più forte del male.
Se anche fosse un’illusione, di certo è una di quelle che ci fa vivere meglio.  


martedì 9 ottobre 2012

Chi vuole sul serio qualcosa trova una strada, gli altri una scusa.


Dichiararsi non è cosa facile a tutti. Qualcuno, più espansivo, riesce a manifestare chi è e cosa prova con maggior semplicità. 
Qualcun altro, invece, non sapendo esternare ciò che ha dentro,  è spesso intimorito da ciò che potrà accadere dopo, risultando spesso goffo, impacciato e insicuro.  
Pensiamo, ad esempio, a quando si decide di dichiarare un amore. La paura di non essere corrisposti incoraggia poco il rischio, pur essendo una paura che ci fa sentire  tremendamente vivi. 
Nessuno di noi impazzisce all’idea di un rifiuto.
E’ un po’ quello che accade a chi decide di fare coming-out
La paura di un rifiuto da parte di familiari, amici o conoscenti, ci induce a non dichiarare la nostra condizione.
E’ una sana paura la nostra, quella di chi non vuole rischiare di perdere qualcosa.
Molti asseriscono che non compiono il passo per non generare un dolore a chi, come un genitore, non si aspetterebbe questa notizia.
Partiamo dal presupposto che ogni genitore conosce le pieghe più intime dell’animo del proprio figlio e che se fino ad oggi hanno fatto finta di niente è perché loro hanno avuto rispetto della nostra intimità. Che rispetto abbiamo avuto nei loro confronti non essendo stati sinceri con chi per noi ha fatto di tutto?
La scusa di generare loro un dolore rimane tale. Una povera scusa.
Quanti di noi hanno fatto prove davanti allo specchio affermando “Sono gay!” Prove che evidentemente denunciano la voglia di voler scrollarsi di dosso un peso che si porterebbe meglio insieme a chi ci vuole bene. Ci si sente spesso ridicoli, sfigati e la nostra voce, guardandoci allo specchio mentre ripetiamo continuamente cosa siamo, ci fa tremendamente schifo.
Un antico proverbio africano recita: Chi vuole sul serio qualcosa trova una strada, gli altri una scusa. Ero stanco di mentire, di non vivere la mia vita, di fare finta di niente, di compiacere gli altri obbligandomi ad essere quello che non ero. Avevo capito che dovevo volere ciò che sono. 
Così, per sfuggire a tutte queste sensazioni, per evitare di sentirmi stupido e ridicolo, ho trovato il modo, forse il più eclatante, per dire a chi mi ama tutto quello che non sapeva di me.
E’ da qui che nasce l’idea del libro, anche se inizialmente non era la pubblicazione la mia vera mira. Avevo scritto per me, righe che avrei riletto probabilmente tra trent’anni, rispolverando il taccuino da un cassetto che non apro mai.
Scrivere mi aiutava a mettere da parte e non dimenticare, mi aiutava ad esorcizzare la tristezza nei momenti in cui il dolore si faceva così acuto che sembrava non poter esistere altro.
Rileggendo e riordinando le idee, con il consiglio di pochi e veri amici, ho capito la potenzialità che avevano le mie parole messe su carta, nero su bianco.
Ho inviato le bozze a un paio di case editrici, una conosciuta, l’altra meno. Entrambe mi hanno risposto con una proposta editoriale. Ho scelto ovviamente la più conveniente.
Non si tratta di un capolavoro classico e non gli interessa esserlo. E’ scritto con una purezza e una semplicità che lo rendono di tutti. Si rivolge ad ognuno di noi.
A domanda rispondo (ma nessuno ha mai chiesto) è stato il mezzo con il quale tutti, soprattutto la mia famiglia, hanno saputo di me.
Contrariamente a ciò che mi aspettavo, le reazioni sono state positive. A fare notizia non è stata tanto la mia condizione, quanto più il fatto che io abbia sofferto così tanto. Che fossi gay era già ben noto a tutti.
Avevo generato in molti la sensazione di sentirsi inutili, un’inutilità scaturita dal fatto che non erano riusciti a starmi vicini nei momenti più difficili.  
Di persone nei miei stessi panni ne conosco tanta, eppure sapevo di non dovermi aspettare tanto da loro. Il popolo gay è come quello di un piccolo paesino di provincia che tende a boicottare se qualcuno riesce in qualcosa rispetto ad altri; riesce ad essere unito quando si combatte per qualcosa per il bene della comunità, ma con la stessa facilità si fanno guerra tra di loro.
A domanda rispondo (ma nessuno ha mai chiesto) è una sincera affermazione di sé (di me), un’indagine profonda che aiuterà, chi lo desidera, a fare i conti con il proprio passato e il proprio presente, nella ferma intenzione di costruirsi un futuro sereno.