Era tanto che non scrivevo sul mio blog. Forse era tanto che non provavo certe emozioni. Ho sempre scritto e messo in tasca, cose da tirare fuori nel momento del bisogno. Ci sono cose che si scrivono come quando si carica una pistola, per premere il grilletto e ammazzare il dolore. Un dolore che, se rimane inspiegato, cresce. Non sono bravo con le parole, con la voce tendo a sminuirle. E allora scrivo, mi metto a nudo, mi spoglio e mi faccio spogliare. Scrivere diventa qualcosa di intimo, più del sesso.
Da quel tuo
primo “like” ne sono seguiti cento miei. Da quel tuo primo “like” mi si è
annebbiata la vista e la testa ha cominciato a girare. Ho iniziato a seguirti,
avevo appuntamento ogni giorno con le foto che pubblicavi. Primi piani in
bianco e nero, la tua collezione di Givenchy, i tuoi occhiali specchiati, i
tuoi cappelli, le pose davanti lo specchio fatte sul pianerottolo di casa tua,
quelle in macchina, i tuoi oggetti di design. In quelle foto non ci sei solo
tu, in quelle foto gira tutto il tuo mondo, un mondo fatto di splendide
passioni, un mondo fatto di cose belle. Tu sei bello.
Credevo di
averti visto una sera, ti ho confuso con un altro ma ancora non te l ho detto.
Sarebbe stata la prima volta. A Milano eri tu però, ho scoperto dalle tue foto
che saresti partito un giorno prima di me. La prima di una lunga serie di
nostre coincidenze. In quel locale, colmo di magrissimi e stilosissimi ragazzi,
ho iniziato a bere per ottenere quel coraggio, seppur liquido, che normalmente
non avrei.
“Maledetta
timidezza” ti ho scritto il giorno dopo. Mi hai risposto con uno smile dalle
guance arrossate. Ho continuato a mettere “like” a tutte le tue foto, poi uno
smile con gli occhi a forma di cuore. E’ arrivata la tua richiesta di amicizia
su un social network, insieme alla mia
immensa gioia condivisa con una persona che conosci. Coincidenza. Ho scoperto
che ne abbiamo molte di coincidenze. I primi messaggi, come stai? Bene e tu!?
Stasera che fai?! Feste, cene, eventi. Entrambi impegnatissimi. Contattami lì,
mi hai detto dandomi un indirizzo. E’ iniziato un bel dialogo, un vero dialogo.
Ci si cercava. Mandavi le tue foto, i tuoi look, le tue faccine assonnate, i
tuoi video con la tua musica in sottofondo. Anche quella non è uguale a quella
che sentono tutti. “Vogliamo vederci?” mi hai scritto una domenica. Pioveva.
Sotto casa tua, in macchina mia. Ancora lo sento quel morso sullo stomaco che
ho provato quando sei salito se solo ci ripenso. Sei timido, più di me. I tuoi
denti bianchi. Ma quale invisalign? Non ti serve. Grazie, ti ho detto mentre
scendevi dalla macchina. Ma di cosa? hai risposto sorridendo. Non frequenti
l’ambiente, non esci con nessuno. Sei prezioso lo sento. Più raccontavi
certe cose per sembrare strano, più mi piacevi. Non sei strano, sei raro,
unico. Anche se, per un attimo, ho pensato fossi matto quando m’hai raccontato
del gatto che ti sogni di notte. Ci siamo scritti ancora. M’hai detto di non
invaghirmi, sarebbe stato rischioso, non ti sono piaciuto, forse. Ti ho detto
di non esserlo, ti ho detto che eventualmente mi saprò leccare le ferite da
solo. Mi hai scritto tu, ancora, il giorno dopo. Sei stato male la notte,
sapevi che mi sarei alzato presto. Ora sono io a cercarti di più, ho bisogno di
sentirti, di sapere che ci sei, di sapere cosa fai e di volere a tutti i costi
riempire la tua giornata anche di me. Ce la farò a diventare indispensabile?
Il punto è che
non so se era più bello ammirarti da lontano o non averti da vicino.
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